Carissimo Avvocato
Lettera all'avv. Errichiello che gli chiedeva di impegnarsi politicamente

Carissimo Avvocato
E’ da qualche giorno che ci penso. Ma non perché mi abbia in qualche modo sfiorato l’idea di prendere seriamente in considerazione la sua lusinghiera proposta di entrare nell’agone politico cittadino. Già domenica scorsa, quando mi ha invitato nel suo studio e mi parlava, cercando eloquentemente di motivare una eventuale quanto improbabile mia scelta in tale direzione, io pensavo al modo ed al tempo più opportuni per dirle quanto ora mi accingo a scrivere.
E’ una modalità comunicativa che si è rafforzata in questi giorni e che di solito si concretizza nei momenti di maggiore intensità della mia vita. Lo scrivere mi inchioda alla sedia e mette ordine nei miei profondi e convulsi pensieri. E’ strumento di comunicazione prima interiore e poi interpersonale. Forse perché la comunicazione, quella vera, prende le mosse dal silenzio, dall’ascolto del proprio animo, dal viaggio dentro se stessi. Ma soprattutto la scrittura inchioda alla sedia il mio interlocutore, che costringo, in qualche modo ad ascoltare. Su uno scritto, inoltre, si può riflettere, meditare. Può essere riletto; resta a memoria e segna, a mo’ di pagina di un diario, un momento; un passo della propria esistenza. Specialmente laddove la comunicazione non potrebbe, come in questo caso, risolversi in una ordinaria conversazione.
Non trascurerei, infine, una valenza della scrittura che potremmo definire catartica. Lo scrivere espia e solleva dalla sofferenza esistenziale. Sofferenza che affligge l’uomo che ha la misura della propria umanità.
Eppure, carissimo avvocato, più passa il tempo, più prende corpo e si consolida in me una tremenda convinzione: ci stiamo incamminando a piè veloce verso quella che definirei l’estinzione della dimensione comunicativa dell’uomo.
L’incostanza e la mutevolezza delle nuove generazioni la dice lunga in merito. I sogni, quelli veri, non informano più la vita. Le speranze perdono la loro forza, anche a causa del condizionamento martellante dei mass media, che fanno presa in maniera più incisiva sulle menti non consapevolmente strutturate né culturalmente caratterizzate.
La società liquida, di baumaniana memoria, è una società oggetto, più che soggetto di storia. Intruppata nell’ultima moda, che si riconosce nello slogan dettato dal subdolo e moderno mezzo di coercizione delle coscienze, al soldo di chi ha interesse a che i cittadini risultino meri frammenti di quel che resta della persona.
E’ l’inesorabile destino di questo mondo. Del nostro mondo; della nostra città. Dominata da una potenza irresistibile, una forza oscura ed invincibile contro la quale gli eroi più valorosi segnerebbero il loro tragico destino. Una verità indotta, dettata come universale ed incontrovertibile, che ha ipostatizzato il potere economico a fine ultimo dell’uomo. Perché l’economia viene dal potere ed il potere dall’economia. E questo binomio simbiotico, questa abominevole bestia ha condizionato ed annichilito, in diversi gradi e misure, tutte le dimensioni dell’uomo postcontemporaneo. E l’esercizio del potere economico è divenuto autoreferenziale. Nel senso che si autolegittima e si autoalimenta. E le sue dinamiche hanno pervaso tutti gli anfratti del vivere civile. Non c’è luogo, sostanziale o allegorico, che non sia stato invaso dal nuovo credo, dalla novella ideologia. Che oggi muove il mondo e la vita di ognuno.
Laddove la si nega a parole, ci si prostituisce ad essa nei fatti. Perché diventa speranza indicibile, sogno ed aspirazione, brama ed illusione.
E l’uomo piange per essa. Per essa e per sognare con essa, le trasmissioni televisive che fanno vincere euro sono quelle che fanno maggiore audience. Ed alimentano e consolidano, come un fuoco che si autoalimenta, le lacrime e le speranze per “il sogno” dell’uomo contemporaneo: soldi e potere.
Potrebbero sembrare, le mie, sentenze; apoftegmi di matrice apocalittica. Eppure è una mia profonda convinzione, derivata da una disincantata e razionale lettura di quanto i fatti sembrano dire.
Stiamo morendo.
La persona sta morendo. Ed in modo graduale ed incruento. Come quando in casa, a porte chiuse, una lieve fuga di metano impregna sempre più l’aria e segna il destino degli abitanti. Che muoiono credendo di respirare aria. Senza accorgersi che il gas venefico ammorba gradualmente, ma inesorabilmente l’aria della casa. Nella completa inconsapevolezza di una sonnolenza che si spaccia per stanchezza.
Non posso negare che l’altra domenica, quelle quattro chiacchiere scambiate nel suo studio, ed il suo argomentare, mi hanno comunque scosso. Hanno fatto in qualche modo vibrare le corde di uno strumento impolverato, chiuso in soffitta, che da anni non vedevo né credevo opportuno rispolverare: l’impegno politico per combattere, per tentare, perché l’uomo è tale nella misura in cui si batte da prode, anche nella coscienza della sconfitta.
Nei suoi confronti ho da sempre nutrito e nutro una profonda stima. La conosco da tempo e lei mi ha sempre ispirato un sentimento di affetto paterno, oltre che di rispetto per le sue capacità culturali e politiche.
Convengo naturalmente con lei che la politica è una dimensione fondamentale dell’essere umano. E la politicità è l’insieme di relazioni che l’individuo intrattiene con gli altri in quanto fa parte di un gruppo sociale. E’ una dimensione consostanziale all’uomo stesso, che tende ad entrare in rapporto con i suoi simili e a formare con essi delle associazioni stabili. Entrando a far parte di gruppi organizzati, egli diviene un essere politico in senso stretto, membro di una polis, di una città, di uno stato.
Socievolezza e politicità, allora, sono due aspetti correlativi di un’unica dimensione, di una dimensione fondamentale dell’uomo.
“L’uomo è per sua natura un animale politico – diceva Aristotile – e colui che per natura è senza stato è superiore o inferiore all’uomo, vale a dire o è un dio, o una bestia”.
Eppure, i fatti di questi ultimi tempi, stanno scrivendo la scena come di un romanzo di orrore.
Il problema è drammaticamente serio. Stiamo vivendo una svolta epocale, che registra, soprattutto a livello regionale, un vero e proprio crollo di legittimazione della politica.
Abbiamo collezionato, sia come nazione, che come regione, che come città, una serie impressionante di primati negativi, di record della vergogna. In ogni campo.
E non riesco a trovare una sola dimensione del vivere civile che non vanti un primato.
Da che cosa vogliamo incominciare? Dal disastro ambientale di portata biblica che in questi giorni è emerso in tutta la sua virulenza, ma che ci funesta da anni? Di questo argomento, sebbene pregnante, se n’è parlato talmente, che ritengo superfluo ogni altro tentativo di analisi ed approfondimento. Mi limito a definirlo un delitto contro l’umanità e contro l’ambiente unico nel suo genere a livello planetario.
Ad aggravare la tragedia, come se non costituisse già da sola una catastrofe, sono intervenute una serie impressionante di ineluttabili implicazioni. Di ogni ordine. Dalle segnalazioni di numerosi casi di tumori, malformazioni e malattie dell'apparato respiratorio, agli studi dell'Organizzazione mondiale della Sanità e dell'Istituto Superiore della Sanità acquisiti, peraltro, dagli inquirenti, che postulano una evidente relazione tra la situazione di inquinamento e i danni alla salute dei cittadini campani. Fatti, questi, talmente gravi, che se considerati con minore superficialità, e paragonati, per gravità, al disastro ecologico, potrebbero derubricare quest’ultimo a sciagura passeggera. Ad un fatto grave, gravissimo che in forza del suo appeal mediatico ha insabbiato una tragedia che si annuncia ben più ponderosa. E che paradossalmente fa, dell’emergenza rifiuti, una falsa tragedia. Falsa perchè dura da più di quattordici anni e quello che vediamo in televisione questi giorni, risulta solo la punta di un iceberg di uno stato di precarietà che tocca tutti gli aspetti del vivere civile. Perché lo stato di emergenza in Italia è usato spesso e volentieri per gestire i soldi pubblici tramite contabilità semplificata. Perché già dal 2002 si denuncia il fallimento se non il boicottaggio della raccolta differenziata da parte del Commissariato di governo per l’emergenza rifiuti, che ha difeso direttamente e apertamente gli interessi economici della FIBE, interessata ad incenerire il più possibile in un impianto che poi non è riuscita a costruire. Falsa tragedia perché è dal 2003 che è in atto il tentativo criminoso di occultare la più grave tossicosi ambientale mai verificatasi in Europa, localizzata in una zona a cavallo tra le province di Napoli e Caserta. Falsa tragedia perché dietro l’emergenza si celano due catastrofi ben più grosse: quella ambientale e quella sanitaria.
Come se non bastasse, la Commissione europea, dal canto suo, è orientata a proseguire la procedura d'infrazione contro l'Italia per la questione dei rifiuti.
Il30 gennaio scorso è stato deciso l'invio di un nuovo richiamo alle autorità italiane dopo la lettera di messa in mora già recapitata in giugno. In ballo ci sono molti soldi, i contributi che la Ue concede all'Italia per progetti legati allo smaltimento rifiuti, e le ingenti sanzioni amministrative che l'Unione commina quando uno Stato dei 27 viola le legislazioni comunitarie.
Non si tratta, allora, di un mero danno dell’immagine della nostra regione e per estensione della nostra nazione nel mondo. Quanto stiamo vivendo, implica la catastrofe economica, industriale, sanitaria, agricola, turistica e chi più ne ha, più ne metta.
Come nel 1986, subito dopo il disastro di Chernobyl che mise in ginocchio l’agricoltura italiana, gli agricoltori campani sono ormai prostrati. La Cia (Confederazione italiana agricoltori) recentemente si è detta enormemente preoccupata per le conseguenze che stanno ricadendo sulla commercializzazione di tutte le produzioni tipiche della regione Campania.
Ormai -avverte la Cia- sembra esserci una vera e propria psicosi per i prodotti campani. Si assiste da giorni a disdette sia dall'Italia che dall’estero. Sui campi restano coltivazioni ortofrutticole per decine di milioni di euro. Più del 35 per cento della produzione di frutta e ortaggi è rimasta invenduta. Non solo. Gli allarmismi scaturiti dalle immagini dei rifiuti che hanno fatto il giro del mondo e dalla paura di contaminazione da diossina hanno fatto crollare anche le vendite di latte (meno 20 per cento), di formaggi, mozzarella di bufala in testa, del 40 per cento, di olio e vino del 25 per cento. Anche per l’agriturismo è una debacle, con calo verticale (tra il 25 e il 35 per cento) delle presenze.
Insomma, per l’agricoltura campana è tracollo, che rischia di assumere dimensioni sempre più gravi, visto che -sostiene la Cia- si possono avere conseguenze sia sull’occupazione che sull'intera filiera agroalimentare. Filiera che genera un giro di affari fondamentale per l’economia della nostra regione.
Tra i numerosi primati negativi della Campania, tanto per continuare il breefing sullo stato di calamità che sta vivendo la nostra regione, continuiamo a registrare il più alto tasso di emigrazione sanitaria verso le altre regioni. Lo stato di salute dei cittadini campani è compromesso più che altrove: si muore di più, in generale, per tumori e per malattie cronico-degenerative; il tasso di incidenza della cirrosi epatica, per esempio, e della epatite di tipo “c” è uno dei più alti del mondo. Ad Afragola, credo, il vergognoso record planetario.
Torna a crescere, peraltro, la mortalità neonatale ed infantile; l’aspettativa di vita alla nascita è la più bassa in Italia; per i tagli cesarei si è arrivati a una media del 60-70 % e potrei continuare questoelenco del disastro sanitario per ore. Tutto questo per non parlare di quanto è scandalosamente assurto agli onori della cronaca nazionale nei giorni scorsi in seguito ai recentissimi eventi che hanno coinvolto il Presidente della nostra Regione, l’ex Ministro della Giustizia e parte dell’esecutivo regionale.
Una vecchia storia. Che ha messo ancora una volta a nudo un consolidato malcostume spartitorio, atavico quanto ripugnante.
Tutto questo per non parlare dell’immane debito della sanità pubblica campana, che secondo gli ultimi accertamenti della Soresa, ammonterebbero a 2,5 miliardi di euro. Nonostante la ristrutturazione del debito avvenuta nel mese di marzo 2007 quando dal Fondo sanitario nazionale si erogava una quota di riparto di ben due miliardi di euro alla nostra regione.
Cosa possiamo aggiungere? Il fallimento della riconversione dell’area di Bagnoli? O la paralisi industriale della nostra regione?
La situazione industriale, in particolare nel settore metalmeccanico, ha raggiunto in Campania una eccezionale gravità, interi settori strategici sono al tracollo, oltre 7000 posti di lavoro sono a rischio.
Lo storico polo meridionale dell’industria elettronica a Caserta, oggi riconvertito dal punto di vista tecnologico alle attività manifatturiere del settore telecomunicazioni/informatico, corre il rischio di essere cancellato, travolto dalle crisi finanziarie di gruppi nazionali e dai processi di riorganizzazione e delocalizzazione delle multinazionali. Così anche in provincia di Salerno.
A Napoli nel settore della telefonia e in tutta la Regione per il comparto delle istallazioni telefoniche, investito dalle conseguenze della riduzione degli investimenti e dalla politica dei subappalti operata da Telecom.
Insomma dalle istallazioni al manifatturiero, alla produzione software l’intero sistema produttivo settoriale sembra essere da tempo caduto in una irreversibile crisi strutturale.
E che dire della occupazione, o meglio della disoccupazione, nonostante i vari progetti “Isola”, con tutti i rischi di clientelismo che comporta ed i miliardi di euro stanziati?
La situazione, invece di migliorare, sembra aggravarsi sempre più. Il tasso di disoccupazione in Campania tocca una percentuale che sfiora il 60%, superiore di dieci punti rispetto alla media del Mezzogiorno e più del doppio della media nazionale. Più di un milione e mezzo, secondo l’Istat, il numero di occupati complessivi, a fronte di cinquecentomila persone in cerca di occupazione.
Per non parlare dello scandalo delle società miste campane o della vergogna delle consulenze milionarie che continuano a dominare la scena bizantina dell'Ente regionale (vedi Paser), nonostante le polemiche e lo scandalo che si sta consumando dell'emergenza rifiuti e discariche.
Lo ripeto, carissimo avvocato: siamo di fronte ad un disastro. Figlio di una immoralità pervasiva. Un disastro che si è consumato gradatamente, negli anni. Lento ma inesorabile. Che ha prodotto uno stato di cose straordinariamente scandaloso, abnorme. Disastro che non si risolverebbe certamente con l’apertura di ulteriori discariche, né con l’escamotage dell’azzeramento della giunta campana o con il cambiamento della compagine governativa nazionale.
E l’insistente racconto di questa enormità nostrana, da parte dei media, il racconto asfissiante della nostra storia, la storia della nostra terra, dei fatti che la stanno funestando, degli eventi che la stanno prostrando, sta contribuendo alla costruzione di un clichè, di una immagine della Campania che potrebbe consolidarsi sempre più come consueta, scontata.
E’ ovvio. Naturale. La nostra classe politica non può che essere espressione e naturale concretizzazione di una morale pubblica distorta, ingannata. Che adora la bestia, che ha detronizzato i sogni e le speranze dell’uomo, derubricandole a reminiscenze letterarie di salotti ottocenteschi. La capacità politica oggi si misura sulla abilità a concertare ed ottenere presidenze alle Asl, consiglieri in qualche consiglio di amministrazione, magari di qualche società mista o, al ribasso, qualche posto in qualche centro commerciale per mantenere l’elettorato.
Certo. Il cambiamento, l’irruzione della “rivoluzione morale” è ormai da tutti letta come l’unica possibile speranza di cambiamento ad un costume ormai sedimentato nella vergogna del clientelismo, della concussione, del furto e del ladrocinio, della irresponsabilità, della irrazionalità e della abdicazione della ragione. Quello che stiamo vivendo, in questi giorni, è la politica della negazione di questa dimensione fondamentale dell’uomo, che fa dell’uomo un uomo.
Sembrerebbe, oggi più che mai, “giunto il momento nel quale gli uomini liberi e forti scendano in campo”. Oggi, come allora, sembra risuonare nelle nostre strade invase dallo scandalo immane delle tonnellate di rifiuti, il proclama di guerra di don Luigi Sturzo, gridato in un momento storico particolare, dove la politica era indispensabile che divenisse patrimonio e strumento di partecipazione democratica alla vita dello Stato.
Proposizione, a mio modesto avviso, più che mai attuale. Perchè essere liberi e forti comporta realizzare appieno la propria umanità, significa fare della socievolezza, del dialogo e del confronto costruttivo il leit-motiv del proprio vivere politico, significa avere come fine il bene e come metodo del proprio agire l’umiltà, significa aborrire gli interessi personali e proporre se stessi come servitori della città.
Questo atteggiamento è, o almeno dovrebbe essere, il fondamento antropologico del vivere nel sociale e del fare politica.
Eppure, dovunque mi giri e cerchi segnali di cambiamento, vedo la politica interpretata e letta come affermazione personale, come strumento ordinario per ottenere benefici. E la strada non può che essere cieca. Una strada che ha portato e porterà sempre più allo svilimento dell’uomo e alla sua negazione.
Seguire la strada che conduce alla tutela ed alla centralità della persona, invece, implica attenzione, sollecitudine, impegno, competenza e soprattutto spirito di servizio e condivisione. Si perchè, checché se ne dica, fare politica è servizio alla persona.
Dico di più: fare politica è vivere la propria vita come tentativo di incarnare la compassione e la carità, unico modo per realizzare pienamente la propria umanità.
Se non si condivide la sofferenza, se non si parte da essa, se non ci si commuove di fronte ad essa, non si può realizzare la propria umanità, non si può essere né uomini, né persone e non si può percorrere quella ‘strada’ per incarnare l’umanità, strada irta di ostacoli, scoscesa e angusta, immagine del cammino che ognuno di noi ha il dovere di intraprendere per riscoprire la vera identità di persona.
Eppure, carissimo avvocato, coloro che di fronte al disastro si scandalizzano, sembra che lo facciano con indolenza, con rassegnazione. La coscienza dei nostri concittadini e dei politici rischia di non provare più fremiti di ribrezzo, rischia di incamminarsi verso quella superficialità o indifferenza, che è una delle numerose piaghe del nostro tempo e che costituirebbe male ancora peggiore di quanto stiamo vivendo.
Sarebbe, allora, necessario un sussulto, che ci faccia ritornare, da un lato, alla sobrietà, alla misura, all’essenzialità e dall’altro lato, alla verità, alla moralità, alla capacità di giudizio, al senso vero del fare politica.
Un sussulto, che mio malgrado, non vedo arrivare. Per il quale non credo sussistano le condizioni perché si verifichi. Né, potrà contribuire a che si verifichi, la mia modestissima discesa in campo, quantunque mi ritenga un uomo libero ed abbastanza forte.
E lo ammetto, nello sconforto di chi soffre enormemente per la propria città: una classe politica degna di tal nome, non avrebbe senso né risulterebbe espressione naturale di un contesto sociale ormai asfissiato nel gas venefico della negazione dell’uomo e della persona. Sarebbe come un pesce fuor d’acqua, un don Chisciotte contro i mulini a vento; un folle sognatore che vive in un mondo fiabesco ed irreale, che crede nelle fate e nei folletti, che per scelta, insegna ai bambini il valore della persona e dell’amicizia.
Non è questo, allora, il mio tempo. Non sarei utile. Né efficace.
Forse, carissimo avvocato, perché la causa dei nostri mali non è da ricercare, sic et simpliciter, nella classe politica, che è solo effetto e naturale estrinsecazione della immoralità e della distorsione delle coscienze.
Inutile dire che la sua proposta mi ha sinceramente lusingato. E che credo sinceramente che lei incarni la fede nella speranza vera; che i suoi sogni informino concretamente il suo agire per l’uomo ed il cittadino.
Non vorrei, però, che il mio declino rispetto alla sua proposta possa essere letto come una fuga dal mondo e dall’impegno sociale. Solo che ritengo che il vaso di pandora dei mali del nostro tempo sia semplicemente l’uomo. Ogni uomo.
La rivoluzione, il sussulto delle coscienze, allora, concerne più che la politica, l’antropologia. Per questo, forse, grazie anche al colloquio di domenica scorsa ed alla formalizzazione di questi pochi pensieri per iscritto, mi sono persuaso ancora di più che al momento debba continuare ad insegnare, con reiterata forza ed impegno, perché possa contribuire meglio e ab imis, a realizzare quella speranza di un mondo più umano e la costruzione di una città di uomini.
Afragola 16 febbraio 2008
Con affetto
Tommaso Travaglino
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