Giganti coraggiosi

La scelta della copertina del giornale di questa settimana, questa volta è statadavvero difficile.
L'intervista al presidente del consiglio comunale della città di Afragola Francesco Petrellese, il dossier sullo scandalo della chiusura del plesso del III Circolo Didattico di Afragola o l'inchiesta sugli extracomunitari presenti sul territorio della provincia di Napoli, tutti servizi presenti nel ricco numero di oggi, mi hanno seriamente tentato, ora l'uno, poi l'altro, a dedicargli la prima di copertina.
C'era qualcosa, però, che sollecitava la mia riflessione. Su questo numero di Cogito, fatto insolito, non concordato a tavolino nella precedente riunione di redazione, sono presenti tre articoli relativi alla figura e all'opera di tre uomini illustri da poco scomparsi, tre giganti, che non sono passati indifferenti nella mia vita: Alfonso Capone, don Gaetano Capasso e don Tonino Bello.
Mentre meditavo, mi è capitato tra le mani un mio vecchio amore, che da anni non vedevo, impolverato nella mia biblioteca.
Vi si narra la storia dell'eroe sumero Gilgamesh re di Uruk. In lui la forza, la potenza fisica, secondo i canoni letterari relativi all'eroe dell'antichità. Significative sono le parole con cui viene presentato a Enkìdu, che diverrà poi il suo amico fedele: "Enkìdu: a te farò vedere Gilgamesh, è allegro, bello per prodezza, ha grande forza, è adorno di voluttà tutto il suo corpo, ha possanza potente più di te, non riposa né di giorno, né di notte".
Dopo essersi scontrati in duello, i due divengono amici inseparabili. E insieme progettano e compiono imprese valorose, che donano immortalità al loro nome.
Improvvisamente, però, il caro amico del re di Uruk si ammala e muore.
Il pianto di Gilgamesh è uno dei brani letterari più belli che abbia mai letto, brano dove il tema dell' amicizia, dell' affetto profondo e il tema della tragedia dell'uomo, quello della morte, cioè, si mescolano nel grido irrefrenabile del dolore umano:
"Amico mio piccolino, che cacciavi con me l'asino di montagna, la pantera di campagna, con cui qualsiasi cosa abbiamo raggiunto, abbiamo valicato i monti, ucciso i tori... Ora che specie di sonno è questo che ti ha preso? Perché sei scuro in volto e non mi senti? Perché non apri i tuoi occhi? Ti tocco il cuore, ma esso non batte. Allora il re di Uruk incomincia a disperarsi. Urla come un leone, come una leonessa a cui siano strappati i suoi piccoli, si curva sopra la faccia del suo amico, si strappa i capelli e i suoi abiti".
Con l'improvvisa irruzione della tragedia, tutto perde significato nella vita di Gilgamesh. Le cose per cui prima avrebbe lottato, ora si rivelano senza importanza. Soldi, ricchezza, affanno per il lavoro. Lo spavento entra nel suo animo.
"Quando morrò, non diventerò forse come il mio amico?" .
Da questo punto inizia una frenetica corsa del re di Uruk. Gilgamesh si mette alla disperata ricerca della vita, di ciò che veramente conta e non si accontenta dei surrogati, che prima aveva scambiato per le cose che veramente possono dare senso e significato alla vita.
Dopo una serie di traversie, navigando attraverso il mare delle acque maledette, tra le tentazioni di una dea che cerca di convincerlo a desistete dall'impresa...
"Dove corri? La vita che tu cerchi non troverai. Gli dei hanno stabilito la morte per l'umanità. Tu non pensarci, riempi il tuo ventre e fa festa. Rallegrati del piccino che da te nascerà, la donna goda del tuo grembo!"
. .. riesce a raggiungere la pianta della vita, mangiando la quale si sconfigge la morte, ma un serpente gliela rapisce e il romanzo, scritto tremila e trecento anni fa, finisce con queste parole:
"Allora Gilgamesh si sedette e pianse".

La fine del poema è la storia di una sconfitta, la sconfitta dell'uomo di fronte alla morte.
La morte. Il nostro dramma immenso, che cerchiamo di esorcizzare in mille modi, di allontanare e distruggere col 'non pensare' o guardando le 'demenzialità' propinate dalla televisione, "Grande Fratello III edizione" compreso.
L'altro giorno, a casa del Senatore scomparso, fui colpito da quanto la moglie mi raccontava, relativamente a quello che il marito spesso le ripeteva di fronte ad una vita che spesso era convulsa e caotica, di fronte alle difficoltà di aver perso la tranquillità di una serena vita familiare, mentre il telefono squillava senza soluzione di continuità. Alfonso Capone le ripeteva con calma quasi serafica: "Non ti deprimere. La mia vocazione è servire. Sono un senatore, eletto perché devo servire i miei concittadini".
E don Gaetano Capasso, morto qualche anno fa, non faceva altro che leggere, studiare, ricercare. Per non parlare delle scelte coraggiose e radicali di don Tonino Bello.
Come Gilgamesh costoro sono stati uomini che hanno scelto di non accontentarsi di una vita serena, senza domande, senza angosce, senza ricerca. Sono uomini che non hanno ceduto alla tentazione della dea che tentò Gilgamesh, per mettersi in cammino verso una meta sconosciuta e spesso, forse, si sino chiesti se fosse valsa la pena di continuare. Sono stati uomini che malgrado la tragedia della morte, anzi forse proprio in virtù di essa, si sono incamminati per cercare le radici segrete della vita, il senso e la vocazione della propria esistenza. Sono stati uomini che hanno avuto il coraggio di intraprendere un cammino, forse ignoto; sono stati i giganti coraggiosi che, come Gilgamesh, si sono avventurati su una strada impervia, non per misurarsi con un mostro o una belva, ma con il destino dell'uomo.


Dal 'Cogito' del 09-02-2003

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