S. Antonio di Padova

Storia, tradizioni, folclore e religiosità naturale

Nel napoletano, come del resto in gran parte del meridione peninsulare, il culto di S. Antonio di Padova è diffusissimo nonché antico. La ragione profonda della celebrità del santo di Lisbona è da ricercarsi probabilmente nelle numerose tradizioni che lo fanno apostolo, fondatore di conventi e taumaturgo, specialmente in Sicilia (1).In barba alla vastissima letteratura concernente la presenza del Santo nell’Italia meridionale, non sembra, stando ai biografi del Padovano, che le cose siano realmente andate così. Secondo costoro nessuna città del vetusto regno di Napoli può fregiarsi di una seppur fugace presenza del Santo, ad eccezione, forse, di un viaggio del Nostro che, insieme al Provinciale della Calabria, da Messina si recò ad Assisi per prendere parte al Capitolo generale. Era il 1221 (2).
Nel capoluogo campano il culto al Santo dei Miracoli, sullo sconcio del secolo XIII e ai primordi del XIV, era già diffuso. Uno dei primi centri fu la chiesa di S. Lorenzo Maggiore dove oltre le statue di S. Francesco, della Vergine SS.ma e dello stesso S. Lorenzo vi era <<anche il cappellone di S. Antonio, ricco di marmi rabescati, con colonne di rosso brecciato di Parigi ed altre colonne e stucchi nella parte superiore; opera del Caval. Cosimo Fanzago>>(3). Altri centri di culto furono il convento di S. Lorenzo (4), S. Giovanni in Corte, S. Maria della Scola, S. Maria della Pietà, S. Gioacchino, S. Rosa dei Costanzi e tante altre chiese per lo più dell’O.F.M. (5). Il più celebre, però, e il più frequentato di tutti i santuari antoniani dell’Italia meridionale è stato e resta quello di Afragola. La sua storia è legata alla venuta dei frati francescani nella nostra città che furono <<dimandati fin dal 1618 a venire in questo paese>> (6), come afferma il Castaldi. Il Caterino (7) anticipa la data della suddetta richiesta al 1613 adducendo un documento che sembrerebbe suffragare la sua tesi. Si tratta di una supplica (8), redatta per iscritto, che sindaco eletti e notabili della Università (9) di Afragola rivolgono al Vicario Generale che reggeva la Diocesi in assenza del Card. Decio Carafa. Il documento è legalizzato dal notaio G. Battista Donadio, porta il sigillo di Afragola e data 1613. A questo punto è d’uopo una riflessione: essendo questo un documento ufficiale, non credo sia stato il frutto di una redazione estemporanea; deve pertanto essere stata la concretizzazione, espressa per vie ufficiali, di una volontà popolare che già da tempo andava maturando. E’ probabile, quindi, che già prima della fondazione del convento domenicano (10) il popolo di Afragola già mostrasse una chiara predilezione per i frati francescani. Sta di fatto che dopo una lunga “querelle” tra i figli di S. Domenico e quelli di S. Francesco (11), nel 1633 iniziarono i lavori per volontà del Card. Francesco Buoncompagno, ben cinque anni prima della stipulazione dell’”Istrumento” di compra-vendita tra Gio. Battista Lajezza, incaricato dal comune e D. Giovanni Respinis, proprietario di quattro moggi nel luogo detto “L’arco di S. Giorgio”, sito nell’odierno complesso francescano.
Il convento ha subito numerosi restauri ed è stato un centro culturale vivissimo in un crescendo di devozione, culto e fervore religioso per tutto il settecento e quasi per tutto l’ottocento. Intorno al 1850 dimoravano nel convento afragolese ben 35 frati dei quali 15 erano sacerdoti, 3 chierici, 2 laici e 15 terziari oblati. Nel Regestum Provinciae (1856) leggiamo: “In conventu S. Antonii Afragolae habetur studium pariter generale secundae classis. Enumerantur ibi novem Clerici, tres lectores, quorum unus Emeritus, alter Generalis, et tertius internus. Extat in hoc conventu Bibliotheca quae non tam numero quam librorum qualiate praecellit “(12). Era quindi un centro culturale, oltre che culturale, di un certo spessore qualitativo.
Già nel XIII sec. I cronisti notavano, oltre ad un fervidissimo culto per il Padovano, una venerazione altrettanto fervida per un crocifisso miracoloso scolpito da Fra Umile da Pietràlia (1586-1639) sito in una graziosa cappella. P. Antonio di Nola così scrive di esso: <<Questa immagine esprime così al naturale le piaghe, li spasimi del suo appassionatissimi originale, che al solo vederlo intenerisce e muove a compassione qualsivoglia core duro ed ostinato (...) A visitare questo miracolosissimo Crocifisso vi concorre pietosamente una gran moltitudine di fedeli >>(13). Il culto del Crocifisso, che si esaurisce con l’anno 1866 - data che segna la soppressione del Convento (14) e la misteriosa sparizione dell’oggetto culturale in questione - era ancora vivissimo nella prima metà dell’800. Il motivo di tanto fervore pietistico è da ricercarsi soprattutto nella “miracolosità” del Crocifisso stesso. E’ la religiosità popolare ottocentesca, caratterizzata da una schietta familiarità con l’oggetto di culto che rasenta la confidenzialità amicale, dominata dalla mentalità del “do ut des”, della “grazia” ad ogni costo. Sono, queste, caratteristiche peculiari di una dinamica religiosa specifica del popolo storico in questione e della “meridionalità” in modo specifico, aspetti che definiscono caratterialmente tal guisa di esternazioni socio-religiose e che, ancora oggi, nell’era del post-Concilio, sono riscontrabili come residui religioso-naturale mutuato dal passato. E’ la stessa religiosità che pontifica nel culto di S. Antonio e che, lungi da me ogni sospetto di svilimento denigratorio verso questa forma di pietà, è da rapportarsi al suo tempo, alla condizione socio-culturale di chi la esprime e la sostiene. E’ facile ancora oggi notare, specialmente nel giorno della festività del Santo, donne che strofinano oggetti o lembi di tessuto sulla statua del Santo di Padova, come se effluvi sprigionati dall’icona potessero magicamente trasmettere i loro poteri taumaturgici. E’ quanto afferma P. Antonio di Nola nell’incipit del XVIII secolo:<< S. Antonio dispensava innumerevoli grazie (...) e faceva infiniti miracoli, li quali perché sono quotidiani, si son fatti usuali ed hanno risvegliata una fede così viva in tutti li fedeli, che ormai basta che vogliono qualche grazia per li meriti di detto santo per ottenerla senza dilazione. E’ tale la confidenza che hanno preso col loro adorato protettore che talvolta l’impegnano con dolci maniere a far prodigi. Non vi è anno che nel giorno della sua sacra solennità, dove concorre una innumerabile moltitudine, non solo della città di Napoli ma anche dei più lontani paesi, che non sia segnato con la singolarità di qualche miracolo>>(15). Anche il Castaldi, nel 1830, ci regala un quadro molto suggestivo tratteggiante i festeggiamenti in onore del Santo (16). Nel 13 del mese di giugno <<si calcolano a circa centomila le sante comunioni che si amministrano nel Santuario>> (17). <<Si svolgono commoventi scene ai piedi del Santo: si implora, si piange, si ringrazia, si fanno voti e promesse talvolta anche clamorosamente (...) La fede però è sempre viva e ardente e il culto del Santo divampa in inni di amore e di ringraziamento>>(18). Si delinea in queste righe un quadro di un mondo particolare che lascia trasparire la chiara matrice culturale di stampo agricolo sulla quale il cristianesimo in quanto tale si inserisce sincretisticamente producendo una religiosità “sui generis”. E’ una cultura, quella contadina, dove assume un valore vitale la “tradizione” dove il passato riveste, quasi, caratteri di intoccabilità sacrale e, corollario di quanto sopra, la vecchiaia è tenuta in grande considerazione; gli anziani, infatti, sono depositari e custodi della tradizione stessa. Su questo “humus” culturale caratterizzante la “terra di lavoro” e in modo più preciso la nostra cittadina, si innesta il discorso dell’acculturazione cristiana che non può prescindere dallo specifico retroterra socio-culturale-religioso che accompagna, sostiene ed esprime, veicolandolo, l’2Evanghèlion”. E’ un mondo, questo, ricco di leggende, di detti, di superstizioni e di magia, affascinante nelle sue sfumature misteriche. La credenza popolare, connubio di religione e superstizione, rappresenta una sfaccettatura di questo poliedrico universo dove si attribuiva enorme valore al racconto orale e dove la parola rivestiva ancora quel ruolo unico e insostituibile di onnicomprensività semantica; dove i nostri concittadini riuscivano ancora ad esprimere, nel bene e nel male, la loro identità di afragolesi.


Da 'Afragola oggi' del 19-06-1994

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