I greci ad Afragola
Tempo fa, leggevo: <<La
qualità della vita. A nessuno sfugge che di giorno la qualità
della vita nel nostro cortile casareccio va facendo sempre più
triste e disagiata.
Provare per credere. Venite un attimo da noi.
Non bastano parole per descrivere questo manicomio quotidiano che
ci vede schizzare come serpi incollerite: tutti corriamo, forsennati,
a chi arriva prima.
Chissà dove, chissà come, quasi sempre senza chiederci
perché.
Non c’è sosta, non c’è un crocicchio dove
stringersi la mano, non c’è l’ombra di un’anima
gentile che ci faccia compagnia. Dove andremo a finire?>>
(Gambuti L.A., Spigolature, Afragola 1993, 95). Riflettendo su questo
pensiero, mi sorpresi a pensare al lento passeggiare dei greci di
due millenni e passa or sono, al loro lento incedere, probabilmente
con le mani incrociare dietro la schiena, parlottando e discutendo
di Dio, dell’uomo dell’universo della morale. Era un
passeggiare fine a se stesso, quasi un bighellonare, reso forse
dal “De Crescenziano” agoràzein che potrebbe
essere tradotto - mi si scusi per il neologismo - con piazzeggiare,
passeggiare cioè per la piazza (agorà) e per le strade.
E’ un atteggiamento, questo, peculiare della razza mediterranea,
parte di un retaggio storico-culturale che identifica il lavoro
al neg-otium. Si tratta della sublimazione dell’ozio (attenzione!
Non si tratta del “padre dei vizi” ma di un ozio creativo,
dell’otium latino che stimola ed eccita la dimensione noetica
della persona) e della stigmatizzazione del lavoro, sia materiale
che intellettivo, che non sia autoctono, non sia cioè svincolato
da ogni legame di asservimento sia di ordine morale che economico.
E’ forse in questo bighellonare senza (eh! I vari Talete,
Anassimandro, Eraclito ne avevano la possibilità. Erano infatti
tutti ricchi proprietari terrieri, zeppi di schiavi e potevano tranquillamente
esimersi dal degradante lavoro manuale che mortifica la mente e
ammazza lo spirito) che è nata la filosofia: l’amore,
la curiosità smaniosa, il bisogno irrefrenabile di conoscere,
di saperne di più sulle cose, sull’uomo, su Dio.
Questo atteggiamento però, non è del tutto andato
perduto tra la nostra gente: sono in qualche modo rimasti degli
strascichi di questo “modus vivendi” in parecchi atteggiamenti
che caratterizzano la nostra cultura partenopea e molto spesso,
mi diverto a extrapopolare questo tipicità di matrice vetero-ellenistica
dal quotidiano scandirsi della comune vita cittadina.
Qualche giorno fa, mi capitò la disavventura di transitare
con la macchina per viale S. Francesco (quello che dal santuario
di S. Antonio mena alla piazza, per intenderci). Dico disavventura
perché rimasi inscatolato nel traffico per molto tempo con
il rischio che saltasse il sistema nervoso, oltre alla frizione.
Notai, in quel frangente, un’immensa massa di giovani che,
quasi in un immobilismo alienante, ostentava moto, grosse macchine
e abiti firmati.
E’ questo, a mio avviso, il sottoprodotto di una civiltà
efficientista che ha idolatrato il prodotto e il prodittivismo,
emarginando la dimensione sociale e associativa dell’uomo
e relegando le attività “non produttive” nell’ambito
degli “hobbies”, divagazione cioè, la cui funzione
si riduce a quella di distrazione e di ricarica (magari nel “week-end”)
per una perfetta ripresa del lavoro,
Ho definito questo fenomeno di accorpamento (non associazionismo)
giovanile “sottoprodotto di una civiltà efficientista”
proprio per sottolineare la sua valenza “foruncolare”,
valvola di sfogo di un comune atteggiamento che marcia sempre più
verso il solipsismo. E’ pacifico, infatti, che la nostra società
iperconsumistica, condizionata fortemente da una volontà
occulta che esprime tutto il suo deleterio e ferale potere attraverso
i mass-media, diventi giorno dopo giorno, sempre più sola
ed egoistica. Il fenomeno di accorpamento anonimo, risulterebbe
quindi, un bisogno dettato dallo svilimento esistenziale e ontologico
della persona stessa, che cercherebbe nell’altro, l’io
che ormai ha perso.
Nella macchina ferma a viale S. Francesco, ritornai col pensiero
all’antica Grecia, e questa volta non mi ritrovai in una agorà,
ma davanti ad un fiume della Beozia; sulle rive, scultorei, tanti
narcisi, e nell’aria, un eco sorda, dolorante: forse la stessa
Eco che persa ogni speranza di essere riamata, fuggì nella
foresta e si consumò dal dolore. Rimase viva soltanto la
sua voce che ancor oggi vaga tra i monti e...le piazze.
Da 'Afragola oggi'
del 24-02-1994
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