Due chiacchiere col professore

Caro professore, sicuramente mi starà leggendo dal momento che ha espresso apprezzamenti per i miei articoli su questo periodico, assicurandomi di essere un mio appassionato lettore. La cosa, e glielo espresso di persona, non può non procurarmi che un grande piacere.
Devo però confessarle che quelle chiacchiere scambiate al bar, mi hanno fatto restare un po’ male; forse perché ho di lei profonda stima; forse perché, nonostante quelle battute, la considero ancora uomo di eccelsa statura culturale e per questo le perdono anche qualche sporadica “ regressione retorica”.
Quelle poche battute al bar però, caro professore, non riesco a digerirle e non accetto che siano state esternate proprio da una persona come lei. Il fatto che discrete opere pubbliche portino lo stemma del fascio littorio non può giustificare né legittimare né avallare l’operato di un regime, né peraltro essere il metro di valutazione del valore intrinseco di un’ideologia, che ha negato ogni libertà alla persona umana. Sarebbe come dire “Pasquale è bravo, quindi tutti quelli che si chiamano Pasquale sono bravi”.
Non credo, caro professore, che debba ricordarle che il fascio littorio, oltre ad essere stato scolpito su opere pubbliche più o meno imponenti, proietta la sua ombra funesta sul “Manifesto della razza”, emanato da Mussolini nel ’38, che imponeva la discriminazione contro i circa 30.000 ebrei italiani.
Non credo inoltre, egregio professore, di doverle ricordare che il fascio littorio è stato lo stendardo bellico che con la sua ombra legittimatoria e deresponsabilizzante ha coperto infami guerre, definite “imperiali”, ma che in fin dei conti si riducevano al massacro di poveri africani che se ne stavano semplicemente per i fatti loro.
Non ritengo opportuno quindi, caro professore, di doverle ricordare l’appoggio morale e fatturale del regime italiano alle efferatezze naziste, la realtà dei 5000 campi di concentramento, i quattro milioni di morti solo ad Auchwitz (un numero di uomini, donne e bambini che avrebbe potuto riempire un’intera grande città), che questo campo di concentramento era stato scientificamente progettato con l’idea di compiere un massacro. Dovevano infatti essere ancora costruite vaste zone di baracche ed erano anche stati predisposti degli appositi spazi per ulteriori camere a gas, camere mortuarie e inceneritori. Il normale tasso oscillava tra le 10.000 e le 12.000 vittime al giorno, con cinque forni crematori che erano in grado di eliminare 279.000 persone al giorno, che i tedeschi guardavano morire con perverso piacere. A tale scopo infatti, avevano costruito appositi finestrini sulle porte delle camere a gas da cui “gustavano” il macabro spettacolo dell’effetto del gas venefico sulle vittime che venivano assassinate.
Eppure, caro professore, in questi ultimi anni in Europa - e in quest’ultimo periodo in Italia - è cresciuto e si è consolidato un movimento che vuole negare l’innegabile. Uno dei massimi esponenti di questo filone di pensiero è Leon Degrelle (ex comandante delle 'SS Wallonie') ricercato per crimini nazisti dalla polizia belga. Le sue sconcertanti affermazioni circa la inesistenza dell’olocausto, caro professore, mi fanno rabbrividire: “Il campo di concentramento, di per sé, dice Degrelle - considerate le circostanze e la gente che era destinata ad andarci, è abbastanza umano, io sono uno specialista, dal momento che in un campo di concentramento si vede il cielo, la domenica si sta con gli amici. I campi tedeschi - continua l’ex comandante 'SS' - erano proprio così. Non è vero tutto quello che hanno raccontato sui tedeschi: si è creata, intorno al loro operato, una leggenda orribile. Non è stato poi così terribile come ci hanno raccontato. I prigionieri assumevano, nella dieta quotidiana, circa 2000 calorie al giorno(...). In tutta la guerra sono morte solo 27.000 persone di cui 19.000 nelle ultime settimane. La gente che affollava i campi di concentramento era composta dai peggiori banditi d’Europa, che in quei giorni venivano presentati come simbolo del patriottismo e della democrazia. Le camere a gas? Mai sentite nominare. Non ho mai sentito un’allusione a questo strumento di morte da parte dei gerarchi nazisti. Voci! Forse servivano per disinfettare i prigionieri”.
Queste affermazioni, caro professore, sembrano l’incarnazione dell’incubo che Primo Levi ha descritto tante volte; l’incubo di tornare da un campo di concentramento, di raccontare, e di trovare un atteggiamento di incredulità da parte di chi ascolta.
Come è mai possibile spiegare un atteggiamento come quello di Degrelle, un atteggiamento di negazione di una realtà tanto evidente? Credo che il caso sia semplice da spiegare. Egli è stato un complice attivo dell’”umanicidio” nazista. C’è quindi una rimozione totale, una incapacità di accettare la vergogna, come un bambino che di fronte a un danno evidente da lui compiuto, negasse di avervi preso parte o, almeno, cercasse di sminuire l’entità del danno stesso.
Degrelle però, non è un fatto isolato, caro professore. Il “revisionismo”, incarnato prima da alcuni storici inglesi all’inizio degli anni ’70, nel ’78 ha avuto un’esplosione in Francia, capeggiato da uno storico dell’università di Lione di nome Faurissonne. Il suo caso fece particolarmente scalpore, perché il libretto in cui negava le stragi naziste, presentava l’introduzione scritta da un famosissimo linguista americano, ebreo di sinistra.
Per potarle un altro esempio le citerò una frase di David Irving, uno storico inglese esponente del “revisionismo” più estremista. Egli ha affermato che “le camere a gas che i turisti possono vedere oggi nei vari campi di concentramento, furono costruite in realtà dai polacchi, dopo la fine della seconda guerra mondiale”. Per non parlarle poi di Ernst Nolte e di altri “maestri del nulla” che tanto stanno blaterando, sbandierando la menzogna ai quattro venti...
Ma mi fermo qui, per non rischiare di cadere in una tautologia, affermando cioè, cose che lei conosce molto meglio di un povero ventiseienne che non ha vissuto direttamente il periodo storico in questione.
Lungi da me, caro professore, l’idea di inquadrarla nell’ambito del movimento revisionista. Mi preme però, solo ricordarle che per aderire ideologicamente ad una corrente politica - che peraltro io rispetto pienamente - non c’è bisogno di prendere un setaccio e operare quella che gli antropologi definirebbero una “selezione positiva” o gli psicologi psicanalisti una “rimozione cerebrale”. Questo atteggiamento, che letterariamente potrebbe essere inquadrato in un procedimento di “prolessi” - legittimare il presente “aggiustando” il passato - (è l’artificio letterario che sta alla base della “pseudo-attribuzione”) non si addice ad una persona della sua mole culturale. Gli artifici letterari lasciamoli ad altri. E' vero professore?
Tempo fa Noberto Bobbio scriveva: “Il pensiero che ci sia anche un solo essere umano che non ne abbia avuto abbastanza, i cui mucchi di cadaveri non siano sembrati abbastanza alti, ci riempie di orrore e di dolore. Se basta un solo atto sublime di carità per esaltarci, dobbiamo avere il coraggio di dire che basta un solo atto di abiezione per metterci in uno stato di allarme. Si è arrivati sino al punto di dire alle vittime, alle poche vittime superstiti: Avete mentito, avete inventato tutto, avete trasformato la grande strage in una grande menzogna.
Ci dobbiamo dunque rassegnare all’idea che il male sia inestirpabile e la storia non abbia trovato, non possa trovare la propria redenzione?
Forse il male compiuto non è stato espiato.
Forse era troppo grande per essere espiato.
E, non espiato, ritorna non soltanto nei nostri sogni, nei nostri incubi, nelle nostre maledizioni, nelle nostre accorate e reiterate proteste, ma anche nella realtà quotidiana, di cui ci danno notizia ormai quotidianamente, con monotona ripetizione, i giornali”. (da “Repubblica” del 17/5/90).
Caro professore, non sto qui ad insegnarle la storia; sto qui a piangere sulla storia, su una storia che non vuole redimere se stessa, su una storia che non insegna ormai più niente.
Tempo fa, caro professore, ho avuto la fortuna di compiere la preziosa esperienza di una visita al campo di Mauthausen e ricordo che rimasi più di un’ora in piedi, da solo, in una grande baracca nella quale si potevano ammirare migliaia di fotografie di uomini barbaramente assassinati, persone come me, come mia madre o mio padre. Quelle foto, in quell’ambiente da silenzio ecatombale, sembravano sussurrare, lamentarsi, gridare contro una dignità negata. Nei loro occhi lessi la vita, spenta nella “shoà” di un regime che ha depauperato ogni dignità, che ha negato l’uomo.
Allora, caro professore, mi farebbe immensamente piacere e riuscirei più facilmente a mandare giù quel peso sullo stomaco che mi sovvenne poco dopo quelle battute scambiate al bar, se lei si facesse araldo e pioniere di un corretto atteggiamento ermeneutico di fronte alla storia, se lei - testimone di quegli eventi terribili e sinistri - si assumesse l’altissimo compito di lasciare, come fosse un testamento solenne ai suoi figli, ai suoi nipoti e conoscenti, questo messaggio:
“Non dimenticare”.


Da 'Afragola oggi' del 08-05-1994

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